"In caso di cessazione del rapporto di lavoro, le indennità spettanti sono assoggettate alla prescrizione quinquennale ex art. 2948 n. 5 cod. civ. e non all'ordinario termine decennale, a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, dell'indennità medesima, ovvero dal tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato, in essere, in ragione dell'esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall'eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto".
Ciò è quanto affermato dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 14062 del 21 maggio 2021.
Secondo i Giudici di piazza Cavour, l'art. 2948 n. 5 c.c., nel sancire che le indennità che spettano per la cessazione del rapporto di lavoro si prescrivono in cinque anni, trova la sua ragione giustificativa nell'opportunità di sottoporre a prescrizione breve i diritti del lavoratore che sopravvivano al rapporto di lavoro, poiché sorti nel momento della sua cessazione, e di evitare in tal modo le difficoltà probatorie che derivano dall'esercizio delle relative azioni troppo ritardate rispetto all'estinzione del rapporto sostanziale.
Detta ratio legis sussiste per qualunque tipo di indennità, sia di natura retributiva sia previdenziale ed anche nell’ipotesi in cui si tratti di rapporto parasubordinato, quando sia a carico del datore di lavoro.
L'assenza di distinzioni nell'art. 2948 n. 5 c.c. induce ad includere nella sua previsione qualunque credito del prestatore di lavoro, purché esso trovi causa nella cessazione del rapporto.
Già il Tribunale Supremo (Cass. n. 10923/1994) aveva esplicitamente escluso che l'art. 2948 n. 5 c.c. potesse essere interpretato in senso restrittivo, nel senso della sua applicabilità unicamente ai crediti sorti nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato.
A tal proposito aveva sottolineato, da una parte e sotto un profilo sistematico, che il Libro V del Codice Civile (Del Lavoro) disciplina varie forme di attività lavorative e, in particolare, il lavoro subordinato (Titolo II), il lavoro autonomo (Titolo III ) ed il lavoro subordinato in particolari rapporti (Titolo IV); dall’altra, aveva specificato la genericità della formula utilizzata dal legislatore nell'art. 2948 n. 5 c.c. ("le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro"), genericità ritenuta tanto più rilevante nella considerazione che le indennità di fine rapporto non sono previste soltanto nel rapporto di lavoro subordinato, bensì anche in altre forme contrattuali, che pure prevedono il regolamento di un'attività lavorativa: premesse, di ordine sistematico e logico, sulle quali ha concluso che l'art. 2948 n. 5 dovesse essere interpretato nel senso che la prescrizione quinquennale concerne tutte "le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro", senza la limitazione a quelle inerenti il rapporto di lavoro subordinato.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Poiché nei procedimenti relativi alle controversie di lavoro, il termine non minore di venticinque giorni previsto per il giudizio di appello dall’art. 435 c.p.c., comma 3, il quale deve intercorrere tra la data di notifica del ricorso e quella dell’udienza di discussione, è un termine non perentorio, bensì ordinatorio, il suo mancato rispetto da parte dell’appellante non comporta l’improcedibilità dell’appello.
Ciò è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10900/2021.
Più nello specifico, il Tribunale Supremo ha sottolineato che nel rito del lavoro, non comporta l’improcedibilità dell’impugnazione, la violazione del termine non minore di venticinque giorni che, a norma del terzo comma dell'art. 435 c.p.c., deve intercorrere tra la data di notifica del ricorso in appello e quella dell'udienza di discussione, come nel caso di omessa o inesistente notifica, ma la nullità di quest'ultima, sanabile per effetto di spontanea costituzione dell'appellato o di rinnovazione, disposta dal giudice ex art. 291 c.p.c.
L'omessa o giuridicamente inesistente notificazione degli atti introduttivi determina invece l’improcedibilità dell'appello qualora l'appellante sia venuto a conoscenza del decreto di fissazione dell'udienza e purché la predetta inesistenza non derivi da causa non imputabile al ricorrente, nel qual caso trova applicazione la regola generale della possibile rimessione in termini ai sensi dell'art. 184-bis, c.p.c.
Nel caso di una mera nullità della vocatio in ius, il vizio è sanabile nelle varie forme a tal fine regolate dalla legge.
Nella vicenda posta al vaglio degli Ermellini, la notifica non era stata omessa, né era inesistente, ma era stata effettuata senza il rispetto del termine a comparire. Secondo i Giudici di piazza Cavour, in tali casi, il giudice deve disporne la rinnovazione.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10378 del 20 aprile 2021, si è pronunciata in materia giuslavoristica, stabilendo che all’illegittima collocazione del dipendente in cassa integrazione consegue il risarcimento del danno e non la riammissione in servizio.
Nel caso in esame, la Corte d’Appello accoglieva in parte la domanda proposta da Tizio nei confronti della società X, avente ad oggetto, previa declaratoria dell'illegittimità della collocazione in CIGS dell'istante con sospensione a zero ore, la condanna della predetta società, al pagamento della differenza fra la normale retribuzione di fatto ed il trattamento percepito a titolo di integrazione salariale.
Il Giudice di merito accoglieva la domanda del dipendente, sul presupposto che, non avendo la sospensione coinvolto tutti i lavoratori con la medesima professionalità del ricorrente, la società aveva illegittimamente omesso di comunicare alle organizzazioni sindacali i criteri di individuazione del personale da collocare in CIGS.
Il Tribunale Supremo, nel confermare quanto affermato dalla Corte territoriale, sottolineava che grava sulla società l’obbligo di comunicare alle organizzazioni sindacali i criteri di scelta del personale da porre in CIG con riguardo a tutti i periodi di sospensione.
In particolare, gli Ermellini stabilivano che “la violazione dei criteri, stabiliti in sede di contrattazione collettiva, per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione comporta, per il lavoratore ingiustificatamente sospeso non il diritto alla riammissione in servizio, versandosi in tema di facere infungibile fuori della sfera di operatività dell'art. 18, I. n. 300/1970, ma solo il diritto al risarcimento del danno, nella misura corrispondente alla differenza tra le retribuzioni spettanti nel periodo di ingiustificata sospensione del rapporto ed il trattamento di cassa integrazione corrisposto nello stesso periodo (cfr., da ultimo, Cass. 4.12.2015, n. 24738), derivandone l'assoggettamento del diritto alla prescrizione ordinaria decennale e non alla prescrizione breve quinquennale, secondo quanto sancito dalla Corte territoriale (cfr. altresì Cass. 15.4.2019, n. 10483 e Cass. 13.12.2010, n. 25139)”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12197/2020, si è pronunciata in ordine alla distinzione tra rapporto di agenzia e procacciamento di affari.
Nel caso in esame, la Corte d’Appello accoglieva l'opposizione proposta da una società avverso il decreto con cui era stato ingiunto a quest’ultima il pagamento, a favore della Fondazione Enasarco, di euro 38.264,22 a titolo di contributi dovuti per il rapporto di agenzia intercorso con alcuni soggetti, formalmente qualificati dalla società come procacciatori di affari.
Secondo il giudice di merito, la Fondazione avrebbe dovuto fornire la prova della sussistenza di rapporti di agenzia, dal momento che la sola percezione di compensi provvigionali con discontinuità temporale e quantitativa, non poteva essere l'unico elemento su cui basare l'accertamento ispettivo, essendo detta modalità compatibile anche con i rapporti di procacciamento d'affari privi del carattere della stabilità.
Dunque, secondo la Corte territoriale, non risultava alcuna prova degli elementi del rapporto di agenzia essendo, tra l’altro, questi rapporti disciplinati da una scrittura intercorsa tra le parti che qualificava gli stessi come rapporti di procacciamento d'affari, restando irrilevante l'iscrizione nell'albo degli agenti.
A questo punto, la vicenda giungeva in Cassazione, la quale sottolineava che sono caratteri distintivi del contratto di agenzia “la continuità e la stabilità dell'attività dell'agente di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente nell'ambito di una determinata sfera territoriale, realizzando in tal modo con quest'ultimo una non episodica collaborazione professionale autonoma con risultato a proprio rischio e con l'obbligo naturale di osservare, oltre alle norme di correttezza e di lealtà, le istruzioni ricevute dal preponente medesimo; invece il rapporto di procacciatore d'affari si concreta nella più limitata attività di chi, senza vincolo di stabilità ed in via del tutto episodica, raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole all'imprenditore da cui ha ricevuto l'incarico di procurare tali commissioni”.
Mentre la prestazione dell'agente è stabile, dal momento che lo stesso è tenuto a svolgere l'attività di promozione dei contratti in via continuativa, quella del procacciatore è invece occasionale nel senso che dipende unicamente dalla propria iniziativa.
Gli Ermellini, confermando la sentenza della Corte d’Appello, sostenevano che quest’ultima non fosse incorsa in alcuna violazione di norme di diritto nell’escludere il requisito della continuità e stabilità della prestazione caratterizzante il rapporto di agenzia, ritenendo che la sola percezione di provvigioni, peraltro caratterizzata da discontinuità temporale e quantitativa e per importi in alcuni casi contenuti, fosse compatibile con rapporti di procacciamento d'affari, come sostenuto dalla società, e risultante dagli atti scritti intercorsi tra le parti univocamente riferibili a rapporti occasionali e privi del carattere della stabilità, giungendo alla conclusione che vi fosse la prova in positivo della riferibilità dei compensi a rapporti di procacciamento.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 6500 del 9 marzo 2021, la Corte di Cassazione, pronunciandosi in materia giuslavoristica, ha stabilito che l’interesse all’esercizio dell’azione disciplinare da parte della P.A. permane anche nel caso di sopravvenuto collocamento in quiescenza del dipendente.
Secondo gli Ermellini, “l'interesse del datore di lavoro pubblico ad accertare, anche a rapporto cessato, la responsabilità del dipendente nei casi di gravi illeciti disciplinari, trascende quello meramente economico, poiché solo l'irrogazione della sanzione preclude raccoglimento della istanza di riammissione in servizio del dipendente dimissionario ed impedisce a quest'ultimo la partecipazione a pubblici concorsi, ai sensi dell'art. 2, comma 3, del d.p.r. 9 maggio 1994 n. 487”.
Il principio di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione giustifica l'intervento disciplinare "postumo" qualora il comportamento del dipendente infedele abbia leso l'immagine della Pubblica Amministrazione, la quale, dunque, deve intervenire a tutela di interessi collettivi di rilevanza costituzionale.
Con la c.d. riforma Madia, l’art. 55-bis, comma 9, d. Igs. 165/2001 è stato rielaborato ed ora dispone che “la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l'infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Anche se la prima versione dell'art. 55 bis, comma 9, d. lgs 165/2001 si riferiva alla cessazione del rapporto per dimissioni, è stato affermato che analoga regola valesse per la previa cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti massimi di età (Cass. 5 agosto 2019, n. 20914).
Sostanzialmente, nel suo complesso, la disciplina è stata considerata “espressione di un principio sottostante, di persistenza della possibilità per la P.A., nel ricorrere dei presupposti del licenziamento disciplinare, di irrogare la sanzione anche se il rapporto di lavoro sia precedentemente cessato per altre cause”.
Ciò in ragione dell'interesse pubblico a definire comunque il procedimento disciplinare per le ragioni di tutela dell'immagine della Pubblica Amministrazione, per gli effetti rispetto a future partecipazioni a concorsi o per l'ottenimento di incarichi, così come per una regolazione di rapporti economici concernenti risorse pubbliche, che tenga conto dei comportamenti tenuti dal lavoratore, qualora disciplinarmente illegittimi al punto da comportare la massima sanzione.
Dunque, l'irrogazione del licenziamento disciplinare a rapporto di lavoro cessato non costituisce in sé causa di inefficacia del susseguente recesso datoriale.
Il licenziamento disciplinare sopravvenuto è “destinato a manifestarsi come evento che, caducando ex nunc la causa dell'attribuzione, opera con effetto estintivo parziale sul diritto già maturato o, qualora l'erogazione vi sia già stata, la rende parzialmente indebita e ciò nella misura in cui tale indennità sia proiezione obbligatoria del diritto rispetto a mensilità per le quali, a causa del sopravvenire appunto del recesso per motivi disciplinari, non può ex post ammettersi la legittimità del riconoscimento”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'